mercoledì 12 gennaio 2011

Il mondo che vorremmo

Si discute, ormai da tempo nei salotti buoni della politica, degli effetti fasti e nefasti della globalizzazione con toni e termini di carattere rituale che non hanno lasciato sul campo soluzioni degne di nota.
Nella vasta produzione letteraria i politici e studiosi nostrani hanno a lungo teorizzato la necessità che l’Europa esportasse modelli di crescita economica, verso i Paesi cosiddetti in via di sviluppo, compatibili con la protezione dei diritti dei lavoratori, così come si erano venuti elaborando in un paio di secoli dalla rivoluzione industriale, salvo poi, alla prima resa dei conti con la realtà, abbandonare tutto e tutti sposando, sostanzialmente, le teorie neoliberali.

Senza ripercorrere tutta la storia delle lotte sindacali delle lavoratrici e dei lavoratori italiani possiamo rifarci a quella che può essere considerata la sintesi di un’organizzazione equilibrata della società, nei suoi diversi aspetti costitutivi, realizzata dalla nostra Costituzione promulgata, lo ricordiamo, nel 1948.

La Costituzione delinea un modello di società imperniata sull’Essere Umano così come elaborata dalla sintesi delle tre grandi correnti di pensiero politico comunista, democristiano e socialista; il lavoro e la famiglia sono i due corpi sociali fondamentali nei quali si esplica la libertà e la dignità della persona: nel primo l’uomo consuma gran parte della sua esistenza e delle proprie relazioni sociali, nel secondo realizza le più intime aspirazioni.

Questa impostazione, annunciata nei “principi fondamentali”agli articoli 3 e 4, viene formalizzata nel “titolo III”  dedicato ai rapporti economici (artt. 35 e segg.) dove si delinea una subordinazione dell’impresa (art. 41, 2° e 3° comma) all’utilità sociale e della proprietà (art. 42, 2° comma) alla funzione sociale.
Il lavoro, di contro, viene protetto in tutte le sue forme ed applicazioni (art. 35, 1° comma) ed è considerato il veicolo fondamentale per assicurare libertà e dignità alla persona (art. 36, 1° comma).
Come si dice nel mondo del diritto il legislatore costituente, nel soppesare i vari interessi, ha ritenuto prevalente quello del lavoro su quello della proprietà e dell’impresa trattati nel medesimo titolo.

Ora non è chi non veda come la società che si è andata configurando, soprattutto in questo ultimo quindicennio, è una società che ha ribaltato i valori costituenti: il fisco (tassazione del lavoratore dipendente nettamente sfavorita rispetto alle rendite finanziarie e immobiliari), la sicurezza sul lavoro (l’esigenza di produzione passa anche sulla vita degli esseri umani), l’abbandono scolastico e la sottrazione di risorse all’istruzione di ogni ordine e grado, il progressivo smantellamento del sistema del welfare, sono solo alcuni esempi del progressivo scadimento delle politiche dei governi nei Paesi industrialmente avanzati; ribaltamento che ha favorito la concentrazione della ricchezza del Paese nelle mani di una parte sempre più esigua dei cittadini tanto che oggi il primo decile della popolazione possiede il 47% della ricchezza e, quel che più preoccupa, con trend in aumento.

Il caso FIAT non è in realtà che il caso più evidente dell’incapacità del governo attuale di svolgere la sua funzione di gestore della politica economica e finanziaria nazionale. Lo Stato di diritto nasce per sottrarre il popolo all’arbitrio dei potenti, il libero mercato in qualche modo segna il ritorno all’ancien regime, questa volta basato sul capitale invece che sul casato d’appartenenza.
Uno Stato di diritto governa l’economia, raccoglie le risorse dove sono in eccesso e le rialloca dove è necessario; nei casi in cui non arriva da solo sollecita la collaborazione e la cooperazione degli altri Stati attraverso le istituzioni internazionali all’uopo preposte. La crisi finanziaria determinata dai sub-prime ha dimostrato che nel mondo non esiste la mano invisibile di smithiana memoria che regola ottimamente il mercato ma occorre che siano gli Stati, ovvero l’essere umano, a governare i fenomeni.

Occorre, in buona sostanza, rimettere l’Uomo al centro ed arrestare questa corsa verso il nulla che qualcuno chiama progresso ma che in realtà non è perché quest’ultimo si può misurare solo in relazione al miglioramento delle condizioni di vita dell’essere umano stesso: da questo punto di vista non possiamo parlare che di regresso!
La nostra ferma volontà deve essere ora e sempre quella di opporci a questo modo di vedere il mondo, quella di combattere affinché vengano attuati i saggi principi così ben espressi e delineati nella nostra carta costituzionale.